L’Umbria che vorrei

Incursione nelle fantasie del passato

Anno di pubblicazione: 2000 – © di Francesco Pandolfi Balbi

Vivo in un luogo che molti naturalisti sognano: la Verde Umbria.
Vivo ad Assisi, la città che tutto il mondo conosce per la semplicità del Santo che la rese famosa.

“Beato te!” mi dicono.

Sì, però l’erba del vicino è sempre più verde.

Penso da sempre che anche questa terra abbia le sue brutture, penso da sempre che vivere fra gente abituata da generazioni a chinare la testa non faccia per me. Per anni avrei voluto fuggire, per anni, sentendomi solo, ho maledetto questi luoghi.

Poi ho scoperto perché la gente è così chiusa e ho cominciato a capire e ad accettare, anche se continuo a sentirmi cittadino di un’altra terra, anche se il sapore dolciastro delle tonache lo percepisco spesso come insidioso, ipocrita; mi ripugna.

Da molti anni devo gestire tanta rabbia; una rabbia che, fino al momento della nascita di Internet, dovevo sfogare in totale solitudine, alieno in un mondo di alieni.

Quanti sogni mi hanno rapito! Quale mondo avevo costruito, coccolato, nutrito attimo dopo attimo… in me.

“Se non ci fosse questa squallida valle” pensavo “sarebbe tutto diverso.”

Ricordo che, nelle giornate di nebbia novembrina, tornavo sempre in quella che da sempre sentivo come la mia unica casa: la cima incantata del monte Subasio. Benché la nebbia mi abbia sempre fatto sentire limitato, oppresso quando vi sono immerso, uscirne e vederla distesa come un mare malinconico è per me lo spettacolo più bello: la valle, con le brutture e la grettezza che troppo spesso mi soffocano, scompare partorendo la più incerta, sognante e infinita delle distese.

So che molti desidererebbero essere al mio posto e apprezzo le mie fortune. Ma qualsiasi medaglia ha il suo rovescio, e ognuno cerca sempre di migliorare la propria condizione. Così io sognavo, sognavo che ai piedi di Assisi ci fosse un bel mare dolce e ricco di vita. Ne assaporavo le brezze notturne, il clima ben più mite; colori e sfumature, profumi e fragranze evanescenti, la risacca e la salsedine ovunque presente erano i miei amici mai trovati, quelli che vivono oltre il contingente e donano senza nulla chiedere… proprio come Madre Natura e gli altri suoi figli prediletti, quegli umani così rari che ancora ricordano chi sono e di cosa fanno parte.

Altre volte, quando le serate più limpide regalavano l’impressione d’aver raggiunto il tetto del mondo, osservavo le stelle; mi chiedevo come possa pensare, l’Uomo, di essere solo nell’universo. Immaginavo miliardi di altre creature – diverse, ma bellissime per il solo fatto di essere vive – impegnate nella danza dell’esistenza, ognuna alle prese con i problemi donati loro dalla vita per “farsi le ossa”, proprio come me.

Sovente abbassavo lo sguardo. Novecento metri sotto di me, sulla E45 (una linea grigia che con pochi metri separa la valle in due dimensioni distanti decenni l’una dall’altra), correvano le luci bianche e rosse delle auto, ognuna con uno scopo, ognuna conduceva uno o più universi verso il loro destino. Pensavo al silenzio e alla chiarezza che regnavano intorno a me, li confrontavo con le piccole esigenze che generano i grandi problemi di chi viaggia insieme a quelle lucine distanti e scoprivo, attimo dopo attimo, come diverse realtà isolate possano coesistere in un unico spazio, in un unico tempo.

Quanto può essere infinita, la vita! Infinita più del sogno che la genera, più del dubbio che la mette alla prova e la spinge verso nuovi orizzonti, più della diversità che si svela al ricercatore… figuriamoci, poi, quella apparente!

Se una persona soffre non lo fa certo per negligenza, lo fa per incapacità. Benvenuta, incapacità, se mi regali sogni e pensieri così belli!

Francesco Pandolfi Balbi
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